L’ora più buia

Michele Nigro
3 min readSep 3, 2019

L’uomo, le sue sconfitte, la parola.

“La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”: ho letto una volta in un libro molto importante; il reietto ripescato, l’escluso a causa dei suoi stessi fallimenti, il mediatore scomodo ma utile, l’inviso ai politicanti e ai diplomatici ad oltranza, il mal sopportato dal reggente, diventa la soluzione pasticciata ai problemi di un’intera nazione. Perché l’evoluzione nasce da un errore che diventa codice registrato e trasmesso ai discendenti dopo numerose prove di esistenza, non nasce dall’ordinario, da scelte senza rischio e dalla vita lineare. La guerra non si fa solo con le armi e gli uomini valorosi che offrono il petto al nemico sui campi di battaglia: un corpo bizzarro (antitetico a quello di dittatori vegetariani!), un personaggio eccessivo, sgraziato, viziato e grottesco, che la moglie nell’intimità ama chiamare “porcellino”, la sua parola maldestra e farfugliata — a malapena captata dalla povera segretaria personale che ha l’ingrato compito di dover dattilografare i futuri discorsi dell’improbabile statista messo lì a tappare buchi politici all’indomani dell’inizio di un conflitto mondiale — possono vincere una guerra.

Non ci sono insanguinati campi di battaglia alla Spielberg ne “L’ora più buia”, ma solo sprazzi di vita privata e politica di un alcolizzato godereccio, appassionato di sigari che deve resistere agli attacchi interni al gabinetto di guerra da lui stesso presieduto, prima ancora che a quelli di Hitler.

La parola è guerra: quella dettata in vestaglia per un telegramma con davanti una colazione ricca di grassi animali e alcol; quella indecisa, tirata fuori a forza e raccolta in foglietti sudati e meditati, la parola cancellata e riscritta un attimo prima di entrare in scena sul palco della politica che è sempre in cerca di un capro espiatorio; quella pronunciata alla radio per una nazione in ascolto e in attesa di una luce da seguire nel buio o di una “v” fatta con le dita in segno di vittoria. La parola che elemosina aiuti bellici sull’altro lato dell’oceano, che cerca consiglio tra la gente comune nel profondo di una metropolitana; la parola appuntata su una scatola di fiammiferi prima di una riunione di governo… Si cerca di vincere con mezzi anche poveri, di fortuna: perché la perfezione non è sempre alla nostra portata, la preparazione non sempre è possibile, la precarietà e l’approssimazione convivono con noi e solo chi sa accettarle, assorbirle, farsele amiche, può trasformarle in forza. Lasciarsi sconfortare dalle difficoltà, arrabbiarsi, bestemmiare, maledirsi e maledire i nemici, mandare al diavolo chi ci sta vicino, restare al buio a riflettere e a leccarsi le ferite, ma subito dopo rialzarsi e vincere: è possibile solo se si impara a convivere con l’imperfezione.

Ma non tutte le parole giuste nascono da noi stessi: spesso dobbiamo cercarle negli altri, nel popolo, nel cosiddetto “uomo della strada” la cui saggezza non è contenuta in alcun libro ma vaga libera tra le vie del mondo in cerca di ascoltatori dal cuore aperto e semplice. Anche quando è la disperazione a renderci aperti e semplici, fosse anche per una frazione di secondo: quella sufficiente a salvarci e ad avere una nuova idea per sconfiggere il nemico.

https://youtu.be/owOKnpsc_WI

Originally published at http://pomeriggiperduti.home.blog on September 3, 2019.

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Michele Nigro

Amo la lettura e quindi i libri, mi diletto nella scrittura di racconti, poesie, brevi saggi, articoli. Il mio blog è https://pomeriggiperduti.home.blog/